Thursday, March 20, 2014

Morto Doku Umarov, il “Bin Laden di Russia”

L’Emiro del Caucaso, il terrorista ceceno ricercato in tutto il mondo e autore di numerose stragi, “è diventato martire” secondo i militanti islamisti. Forse un “colpaccio” dei servizi segreti russi.

Doku Umarov

Doku Umarov, leader dei separatisti ceceni e capo dell’Emirato del Caucaso, “è diventato un martire”. Ovvero, traducendo, è morto. La notizia era stata lanciata ieri daKavkaz Center, il sito principale dei militanti islamisti della Russia, ed è la prima notizia davvero credibile circa il terrorista. Dato più volte per morto da fonti diverse, infatti, era però sempre sfuggito alla cattiva sorte. Fino a oggi, quando la formula del martirio utilizzata per l’annuncio e la fonte “ufficiale” ne certificano l’attendibilità.

Leader del gruppo armato Emirato del Caucaso, Doku Umarov era ricercato a livello mondiale per terrorismo e figurava tra i most wanted di Russia, USA e altri Paesi. Su di lui pendeva anche una taglia da 5 milioni di dollari. È questa una delle ragioni per cui il fatto ha del clamoroso. Ancora non si conoscono le dinamiche del decesso e nessuno riferisce se la fine di Umarov sia da attribuire a una malattia o a un omicidio.

Nato a Kharsenoi nel 1964, Umarov formò le sue idee più radicali e maturò l’odio nei confronti di Mosca a cavallo delle due guerre cecene (1994-1996 e 1999-2009), dove negli anni crebbe progressivamente come leader della rivolta islamista nel Caucaso del Nord, culminata con la sua autoproclamazione a “Emiro del Caucaso”.

Nella sua storia di combattente, figurano numerose incursioni dei ribelli in territorio russo e aspri scontri in entrambe le guerre contro la Russia, a partire dal 1994. Fu ministro della sicurezza della Cecenia durante la sua breve indipendenza tra il 1996 e il 1999, per poi divenire comandante del “fronte sud-occidentale” delle forze armate ribelli nel 2002. Le forze d’intelligence concordano nel ritenere che, attualmente, sotto il comando di Doku Umarov vi fossero circa 1.000 combattenti.


- Le stragi dell’Emiro del Caucaso da Beslan a Volgograd
Le stesse fonti ritengono che l’Emiro abbia giocato un ruolo-chiave nell’organizzazione di numerosi attentati, come quello nella vicina Repubblica di Inguscezia nel giugno 2004 (dove morirono decine di persone, tra cui il ministro degli interni locale) e l’assalto alla scuola di Beslan nel settembre dello stesso anno, la vergognosa strage dove morirono quasi quattrocento persone, tra cui oltre 180 bambini. A lui sono stati ascritti anche gli ultimi attentati terroristici che hanno preceduto le Olimpiadi Invernali di Sochi (Volgograd e Makhachkala, dove i terroristi hanno colpito duramente tra dicembre e gennaio).

Anche per questo, tra il 2010 e il 2011 era stato inserito nella black list del terrorismo internazionale da Stati Uniti e ONU, e su di lui pendeva la già citata taglia milionaria (vivo o morto). A Mosca e dintorni, inoltre, si era guadagnato il soprannome di “Bin Laden di Russia”.
Dopo aver seminato il terrore nel nord del Caucaso e aver minacciato le Olimpiadi Invernali di Sochi, negli ultimi anni aveva fatto incetta di cariche, a ribadire la leadership indiscussa: presidente della Repubblica secessionista cecena di Ichkeria prima e fondatore dell’Emirato del Caucaso poi.


- Umarov ucciso dai servizi segreti russi?

Secondo l’agenzia stampa russaItar Tass, che ha citato Ramzan Kadyrov, leader paramilitare nonché primo ministro reggente della Cecenia, l’annuncio di oggi dimostra quanto riferito in precedenza dal premier, ossia che Umarov sarebbe morto durante una non meglio specificata “operazione speciale”.

Che dietro al “martirio” di Doku Umarov ci sia o meno lo zampino dell’FSB o dell’SVR, i servizi segreti che operano rispettivamente all’interno e al di fuori della Russia, non è dato sapere al momento. Ma certamente, per Vladimir Putin questa è un’ottima notizia. Il presidente russo, infatti, che al momento è molto attivo nella difesa del proprio Paese (per usare un eufemismo), aveva promesso a se stesso e alla Russia di “risolvere” una volta per tutte la questione del terrorismo ceceno, non appena fossero terminati i Giochi di Sochi.

Sono allora la cronaca delle Olimpiadi invernali russe - dove è stata pienamente garantita la sicurezza ed è stata sventata ogni azione criminale - e la successiva notizia della scomparsa del più temuto nemico di Mosca, a certificare che il dossier ceceno è stato ripreso in mano e a dimostrare quanto l’impegno del Cremlino in tal senso sia serio. Anzi, a giudicare dalle ben note vicende che accadono intorno ad altri confini (quelli dell’Ucraina, tanto per capirsi) quell’impegno è anche troppo serio. Ma forse il termine più adatto è “aggressivo”. Sembra quasi che per Vladimir Putin sia ormai giunto il momento del “redde rationem”. Di quale “rationem” si parli, però, solo il presidente russo lo sa.


Font: di Luciano Tirinnanzi per Lookout News





Sunday, March 16, 2014

TERROR ALERT : ARE BETWEEN U.S. AND ARE READY TO HIT ...





TERROR ALERT : ARE BETWEEN U.S. AND ARE READY TO HIT ...

 Gilles de Kerchove , coordinator of the European Union to combat terrorism warns of Muslim immigrants .

 In an interview with EuroNews has made ​​these statements :
" The terrorist threat is present in Europe . In particular , it is young people ' European ' from Europe and North Africans who go to Syria to participate in the fighting , and training to become terrorists. We obviously try to stop them before , even with prevention campaigns , but it is difficult because they are already inside our territory and many are not known to the authorities. They live and grow in Europe as ordinary citizens and then they are ready to go to war. The threat is serious and real , but because they are not part of an organized terrorist group , but using the 'mark ' Al-Qaeda and proliferate in style franchise . At the moment the most insidious threat comes not from Middle Eastern countries but from North Africa . "

These are the effects of granting citizenship to " jus soli " in France and England !

It 's necessary that unique in the world, we are going to take them directly to their home to take them in the West?


Friday, March 14, 2014

SE OBAMA VIENE MOLLATO ANCHE DALLA OTTANTENNE FEINSTEIN, LA SUA PRESIDENZA È VERAMENTE A PEZZI - SULLE SPIATE AL SENATO, GODE SNOWDEN.


President Obama and Senator Dianne Feinstein




Con maliziosa ironia Snowden ora parla di “ipocrisia” e di “effetto Merkel”: non si obietta allo spionaggio a tappeto finché non si è toccati in prima persona, come è successo alla senatrice decana Dianne Feinstein, che ha attaccato a brutto muso la Cia, e di fatto anche Obama per non aver fatto partire un’inchiesta sulle spiate della NSA…

In un editoriale cucinato e servito subito dopo la sfuriata della senatrice Dianne Feinstein contro la Cia, il New York Times ha colto un punto che si staglia oltre l'orizzonte immediato della controversia di palazzo: "La nebbia persistente intorno alle detenzioni della Cia è l'esito della decisione presa da Obama, quando è arrivato alla Casa Bianca, di non condurre un'inchiesta. Speriamo almeno che sappia che una volta che ha perso Dianne Feinstein, non ha altra scelta se non rovesciare quella decisione".

Traduzione: se il presidente s'è alienato pure l'ottuagenaria liberal che quando si tratta di scandalizzare le vestali dei diritti civili in nome della sicurezza nazionale non è seconda a nessun falco repubblicano, quella che tuona contro il "traditore" Edward Snowden e che per lo stesso New York Times è stata un'alleata anche "troppo affidabile" dell'estensione dei poteri delle agenzie di sicurezza dopo l'11 settembre 2001, figura sensibile alle ruvide esigenze della ragion di stato per istinto e formazione, significa che qualcosa s'è rotto.



DIANNE FEINSTEIN

La senatrice dice che spiando e rimuovendo dati dai computer della commissione intelligence del Senato che lei dirige - e che da anni lavora a un report sulle pratiche di detenzioni e agli interrogatori del post 11 settembre - la Cia ha violato in un colpo solo il quarto emendamento alla Costituzione (che proibisce le "perquisizioni irragionevoli" da parte del governo), una legge federale, un ordine esecutivo che limita le operazioni dell'agenzia ai territori stranieri nonché l'ordine dei rapporti fra i poteri dello stato. "Roba da Richard Nixon", come ha detto il falco repubblicano Lindsey Graham: "Se è tutto vero il ramo legislativo deve dichiarare guerra alla Cia". Dichiarare guerra è espressione iperbolica, ma rende l'idea.

Il deputato repubblicano Mike Rogers, omologo di Feinstein alla Camera, dice che se la senatrice "decide di parlare pubblicamente significa che qualcosa di sbagliato è successo. E' una situazione potenzialmente orribile che potrebbe distruggere i rapporti fra la Cia e il ramo legislativo". Per Feinstein le mani che di nascosto frugano nei computer del Senato e fanno scomparire un'inchiesta interna (nota come la "Panetta Review") che dettaglia gli interrogatori duri e le detenzioni illegali della guerra al terrore sono il "defining moment" della Cia, il momento che ne definisce la vera identità.

Secondo la senatrice la "Panetta Review" fornisce un resoconto dei fatti molto diverso da quello ufficialmente approvato dall'agenzia. John Brennan, direttore della Cia, sa di prendersi un rischio enorme quando dice che le parole di Feinstein "non potrebbero essere più lontane dalla verità", anche perché, contrariamente ai colleghi di Capitol Hill Tom Udall e Ron Wyden, capofila della lotta agli eccessi spionistici in nome della sicurezza, Feinstein era soldatessa fedele, strenuo avvocato del Patriot Act e dei metodi spicci per combattere il nemico.


Snowden

Quando è scoppiato il caso Snowden ha tenuto una posizione anche più dura di quella della Casa Bianca nei confronti dell'ex contractor che ha ricevuto asilo in Russia, fino al giorno in cui si è scoperto che la National Security Agency spiava gli alleati più stretti dell'America, con tanto di cimici piazzate negli uffici dell'Unione europea e orecchie che arrivavano fino al cellulare di Angela Merkel. La commissione intelligence non ne sapeva nulla, il che in prospettiva costituzionale è anche più grave del fatto in sé.

E' a quel punto, siamo a ottobre dello scorso anno, che l'alleanza fra la commissione del Senato e l'apparato d'intelligence ha preso a scricchiolare: "Contrariamente alla raccolta di dati attraverso il mandato di un tribunale, è chiaro che certe attività di sorveglianza sono state praticate per oltre un decennio senza informare in modo soddisfacente la commissione intelligence", ha detto allora Feinstein.


National Security Agency tn


Non è chiaro se passare al computer in dotazione dello staff del Senato il documento interno sia stato un atto volontario o involontario della Cia, oppure l'opera di una talpa: a giudicare dalla rabbiosa reazione - legale e fattiva - dell'agenzia il passaggio non è avvenuto volontariamente. Feinstein ha presentato al procuratore generale, Eric Holder, un esposto uguale e contrario a quello comminato ai suoi danni, ma allo stesso tempo ha deciso di rendere pubblico questo immane scontro di potere sul quale ogni attore di Washington non può non prendere posizione.







cia central intelligence agency

Segno che le riserve di fiducia nei confronti dell'Amministrazione Obama si sono esaurite, e non rimane altro che alzare il livello dello scontro portandolo sopra il pelo dell'acqua. I senatori democratici, a partire dal leader Harry Reid, sono dalla parte di Feinstein; la maggior parte dei repubblicani è contraria, perché tutta la disputa potrebbe gettare altro fango sull'apparato legale messo in piedi da Bush durante la guerra al terrore, ma la timidezza del Gop fa imbestialire quelli come Graham e John McCain: un conto è il contenuto dell'inchiesta, un altro è il sanguinoso scontro di potere fra l'intelligence e i rappresentanti del popolo che sono incaricati di controllarla.

C'è di mezzo l'ordinamento dello stato garantito dalla Costituzione, non un dettaglio. Obama naviga nella bufera come se nulla fosse. Sapeva? Non sapeva? E' parte in causa o ignara vittima delle manovre interne?

E' ormai il solito dilemma obamiano, e come al solito non si sa quale sia la risposta meno devastante per la qualità della sua leadership. Meglio essere imbelli circuiti dai propri apparati per poi poter dire "non ne sapevo nulla" quando il caso scoppia, oppure scaltri kingmaker che forzano leggi e convenzioni ma poi si prendono le proprie responsabilità? Obama sceglie di non scegliere, e nella non-scelta c'è un metodo. La politica estera ondivaga, basata sulla reazione agli input esterni, programmaticamente "from behind", condita con ideali abbastanza solidi da costruirci discorsi emotivamente trascinanti, non un'azione politica seria, si ripropone anche sul fronte interno.

Il "nation building at home" con cui ha giustificato una forma obliqua di isolazionismo dopo gli anni internazionalisti di George W. Bush non sta funzionando benissimo. Anche l'economia avanza a un ritmo incompatibile con una crescita significativa. Tutti i punti caldi fra la sicurezza nazionale e il Congresso sembrano scivolare via fra le dita del presidente. Le rivelazioni di Snowden non hanno aiutato, soprattutto quando il direttore delle agenzie d'intelligence, James Clapper, sotto giuramento davanti a un panel del Congresso, dice che la Nsa non spiava cittadini americani, o almeno "not wittingly", non volontariamente. Tre mesi più tardi i documenti della talpa Snowden hanno mostrato che l'agenzia raccoglieva sistematicamente dati su milioni di americani. Clapper si è schermito con qualche piroetta linguistica, secondo i canoni dell'ermeneutica americana della mezza verità sotto giuramento, e Obama, da par suo, non ha preso alcuna iniziativa; ma il Congresso se l'è segnata.

Così come si è segnato la cacciata repentina del generale David Petraeus dalla direzione della Cia per via di una liaison extraconiugale che non costituisce reato né viola il codice di condotta dell'agenzia.
Erano altri i motivi per cui la fazione vincente dell'intelligence voleva la testa del generale, si parlava di uno scontro fra concezioni competitive del ruolo dell'agenzia sullo sfondo del disastro di Bengasi, e anche quella volta Clapper è stato decisivo.

Obama, da par suo, si è limitato ad assecondare la corrente più forte. Ci sono stati pasticci d'intelligence in Libia, in Russia appena prima dell'invasione della Crimea, altri pasticci nella gestione dei rapporti con i giornalisti - categoria che il presidente della trasparenza ama perseguire per vie legali - leak e controleak, congiure di palazzo e disinformazione, battaglie legali sui bombardamenti clandestini con i droni e gli obiettivi con cittadinanza americana, l'eterna disputa sul carcere speciale di Guantanamo, scontri con il Congresso che ha visto erodere la propria funzione di controllo, fino al punto in cui la situazione è stata esplicitata dalla più improbabile delle senatrici. Qualcosa s'è rotto, ma non è una rottura improvvisa, piuttosto un cedimento strutturale dopo che troppo peso è stato caricato sulla fragile architettura di potere tenuta insieme dal presidente.

La questione delle detenzioni e degli interrogatori duri assomma in un certo modo tutte le debolezze di Obama, perché è l'espressione di quella visione del mondo, dell'America e della sicurezza di cui il presidente voleva liberarsi; una volta che si è trovato nei panni del commander in chief ha notato che era stata la forza della necessità a suggerire al suo predecessore l'impiego di strumenti straordinari.

Smantellarli non era facile ma soprattutto non conveniva, meglio affinare il senso dell'equilibrio e procedere cautamente sullo stretto crinale fra le parole e i fatti, adottando deliberatamente la debolezza, l'assenza, l'indecisione, il "non sapevo" come criteri della gestione del potere. Come il vuoto dell'America di Obama ha lasciato spazio ad altri player più attivi sullo scenario globale, così il vuoto obamiano nel palazzo ha lasciato che fermentassero insanabili scontri di potere. La lucida sfuriata di Feinstein contro la Cia, con tutte le implicazioni e i rimandi che suggerisce, è tutto sommato soltanto un epifenomeno.


Font: Mattia Ferraresi per ‘Il Foglio'


Thursday, March 13, 2014

Talebani pakistani: 500 donne kamikaze pronte a uccidere...



I talebani pakistani hanno a disposizione più di 500 donne kamikaze, su oltre 1300 giovani studentesse delle scuole coraniche, pronte a farsi esplodere per raggiungere l’obiettivo fissato da tempo dai fondamentalisti: introdurre la sharia, la legge islamica, nel Paese.
Nelle ultime settimane il Tehreek-e-Taliban Pakistan (Ttp) ha compiuto una serie di attacchi suicidi contro obiettivi sensibili, fra cui poliziotti e membri della sicurezza, per vendicare la morte di compagni e affiliati al movimento estremista combattente; secondo gli ultimi proclami le violenze andranno avanti “fino a che non saranno soddisfatte” le loro richieste. Con buona pace del governo, che intende continuare i colloqui per il raggiungimento di un cessate il fuoco, e la disperazione crescente di gran parte della popolazione e della società civile, esasperata dalle violenze e contraria alla progressiva “islamizzazione” dello Stato.


Per il raggiungimento di un cessate-il-fuoco, i talebani hanno posto una serie di vincoli non trattabili fra cui: introduzione della sharia nel Paese; un sistema educativo di impronta islamica; la liberazione di tutti i terroristi e combattenti, fra cui gli assassini di Salman Taseer e Shahbaz Bhatti; la cessione di tutte le aree tribali e il ritiro dell’esercito; fine del sistema bancario basato sugli interessi; rottura del patto con gli Stati Uniti nella guerra al terrore; sostituire il modello democratico con un regime islamico. 
I colloqui di pace che hanno preso il via a inizio mese e hanno già sollevato pesanti perplessità e feroci polemiche. Una parte consistente è favorevole al tentativo e preme perché venga sottoscritto un accordo che metta a tacere le armi e segni la fine di attacchi mirati e attentati sanguinosi; di contro, vi è una fetta numerosa che preme per l’operazione militare e punta il dito contro il sistema giudiziario, incapace di punire i colpevoli.


Se, da un lato, i militari hanno interrotto le operazioni aeree dei droni e il premier Nawaz Sharif conferma di voler seguire la strada del dialogo, il Ttp continua a sferrare attacchi sanguinari in tutto il Paese; solo nell’ultimo periodo i guerriglieri fondamentalisti hanno rivendicato almeno sette attentati, fra cui l’esplosione di un bus della polizia a Karachi in cui sono morti 12 agenti.
Nel mirino degli estremisti è finita anche una popolazione tribale di poche migliaia di individui stanziata nella valle di Kalash; i suoi membri vivono da secoli in una zona remota del Pakistan nord-occidentale, al confine con l’Afghanistan, sono di indole pacifica e professano una religione pagana e politeista. Il loro leader sostiene con forza l’istruzione nella regione, la convivenza pacifica fra gli abitanti e il dialogo; i talebani hanno intimato loro di “convertirsi all’islam, oppure verranno sgozzati”.
Del resto per i leader talebani il Pakistan attuale, basato sul modello e gli ideali tracciati dal fondatore Ali Jinnah nello storico discorso al Parlamento del 1947 (pluralismo, libertà religiosa, stato laico, parità di diritti fra musulmani, cristiani, sikh, indù, etc…) risulta indigesto. E il primo obiettivo è proprio il cambio radicale della Costituzione, che deve essere modellata sui dettami della sharia, così come il sistema giuridico. Una visione che, per molti analisti e la parte liberale del Paese, finirà per “devastare psicologicamente il Pakistan nella sua essenza primaria”. Con i continui attacchi, molti dei quali rivolti a polizia e istituzioni, i vertici del Ttp danno l’impressione di essere più forti dello stesso Stato, e che possono colpire chiunque. E continuano ad alimentare un senso di insicurezza e tensione che finisce per travolgere prima di tutto le vittime innocenti. Per questo fra la popolazione cresce il consenso per una operazione militare di vasta portata, che metta fine alla minaccia talebana nel Paese.

Font:
Doto: AP, Asia News, Infophoto
di Jibran Khan – Asianews