QUANDO LA REALTÀ È (PEGGIO) DI “HOMELAND” - ESPLODE IL CASO DELLA SPIA AMERICANA CATTURATA IN IRAN, SPARITA DAL 2007
Robert Levinson, ex agente Fbi, è stato infiltrato in Iran da agenti Cia che operavano senza autorizzazione - Viene catturato, ma i servizi Usa versano 2,5 mln $ alla moglie per stare zitta, e per anni parleranno di un “turista” rapito - Ora l’Associated Press ha rivelato la (presunta) vera storia…
ROBERT LEVINSON |
Per quasi sette anni ci hanno raccontato che era un turista distratto. Al massimo un investigatore privato un po' goffo, che si era messo nei guai facendo un giro sopra un'isola iraniana, a caccia di contrabbandieri di sigarette. Ora, proprio mentre Washington e Teheran sono impegnate nel negoziato più serio dell'ultimo trentennio, scopriamo invece che Robert Levinson era in missione per conto della Cia. Una missione balorda, non autorizzata, ma comunque un'operazione originata nelle stanze più segrete di Langley, che ha prodotto l'ostaggio americano detenuto all'estero più a lungo, e una serie di licenziamenti.
Questa storia vera, che batte qualunque romanzo, comincia nel 2006. Levinson è un ex agente dell'Fbi, basato in Florida e specializzato nei traffici della mafia russa. Diversi anni prima aveva conosciuto Anne Jablonski, un'analista Cia dello stesso settore, ma nel frattempo il clima è cambiato.
Gli attentati dell'11 settembre 2001 hanno imposto ai servizi di allargare le operazioni, e Anne è diventata un pezzo grosso dell'Illicit Finance Group, che segue i traffici di denaro. Raccomanda l'amico Bob al suo capo, Timothy Sampson, che lo assume con un contratto esterno.
Levinson, che aveva lasciato l'Fbi per guadagnare nel settore privato i soldi necessari a crescere i suoi sette figli, è entusiasta: «Oggi - scrive alla collega che chiama amichevolmente Toots - è il trentaduesimo anniversario del mio matrimonio con Christine: festeggeremo le due cose insieme. È troppo bello per essere vero, hai davvero fatto la mia giornata».
Bob ha la reputazione di essere molto bravo a sviluppare le fonti, ma la Cia è interessata a Paesi che non conosce bene, come l'Iran: vuole sapere come reagirebbe alle sanzioni, cosa fa per aggirarle, e magari ricevere segreti imbarazzanti sui suoi leader. Levinson si mette al lavoro e attraverso Ira Silverman, un ex giornalista investigativo della «Nbc», riesce a contattare Dawud Salahuddin, un americano fuggito in Iran dopo aver ucciso a Bethesda un ex assistente dello Shah nel 1980.
Bob pensa che possa dargli informazioni buone, e ottiene un appuntamento. Vola a Dubai, e l'8 marzo 2007 va sull'isola iraniana di Kish: la sua nuova fonte lo aspetta nella lobby dell'hotel Maryam, indossando un berretto nero per farsi riconoscere. «Mi domando perché - scrive Levinson a un amico prima di partire - a questo punto della mia vita, con sette figli e una grande moglie, io mi metta in un simile pericolo».
La conversazione con Salahuddin dura diverse ore, e poi i due si lasciano. Silverman manda una mail a Bob per avere notizie, ma non riceve risposta. Prova ancora il 10 marzo, e quando l'amico resta in silenzio, capisce che qualcosa è andata storta: è il 59esimo compleanno di Levinson, e lui neppure si fa vivo. Il rapimento diventa in breve ovvio, ma da parte di chi? E per farne cosa?
Alla Cia scatta un'inchiesta interna, e presto si scopre che Jablonski e Sampson, con l'aiuto di un terzo funzionario, hanno mandato Bob a condurre una missione non autorizzata. Ai tre funzionari vengono date due opzioni: dimettersi, o essere licenziati. La Cia però non dice nulla neppure all'Fbi, e la famiglia di Bob non sa come cercarlo.
Si rivolge all'ex procuratore della Florida David McGee, vecchio amico di Levinson, che riesce ad aprire le sue mail e scopre la verità. È il marzo del 2008 quando finalmente la moglie Christine viene chiamata negli uffici dell'Fbi, dove la Cia ammette tutto. McGee minaccia di fare causa, e allora l'agenzia offre alla famiglia quasi due milioni e mezzo di dollari di ricompensa. La verità però deve restare nascosta, per non ostacolare le ricerche.
Passano due anni, finisce l'amministrazione Bush e comincia quella di Obama. Il presidente iraniano Ahmadinejad dice di non sapere nulla della sorte di Levinson, ma offre il suo aiuto. Nel novembre del 2010 un video di 54 secondi arriva alla famiglia: «Per favore - implora Bob - aiutatemi a tornare a casa. Trentatre anni di servizio per gli Usa devono meritare qualcosa».
Dopo altri sei mesi, in aprile, arrivano foto di Levinson vestito come i carcerati di Guantanamo. Sarà l'ultima prova che è ancora vivo. Il segretario di Stato Hillary Clinton dice che è in Asia sud occidentale, sperando così di dare agli iraniani la copertura per rilasciarlo in Pakistan o in Afghanistan, ma non accade nulla. Entra in campo il trafficante di armi Sarkis Soghanalian, che si offre di mediare e dice che Bob è nelle mani di Hezbollah: gli emissari della famiglia vanno a Cipro per incontrare un intermediario, ma non è vero nulla.
Vengono coinvolti anche i russi, per favorire la trattativa: il ricco uomo d'affari Oleg Deripaska e il trafficante Birshtein. Un'altra illusione. Pure il nuovo presidente Rohani dice di non sapere nulla, e a novembre Bob diventa l'ostaggio americano detenuto più a lungo: 2.454 giorni, peggio di Terry Anderson in Libano.
L'«Associated Press» scopre il suo rapporto con la Cia, che altri media avevano tenuto nascosto, e nonostante la Casa Bianca intervenga per bloccarla, la notizia esce. Il portavoce di Obama, Carney, rimprovera l'«Ap»: «Irresponsabili. Quando è scomparso, non lavorava per il governo». Usa e Iran stanno cercando di superare uno scontro durato oltre trent'anni, ma intanto nessuno sa neppure se Bob è ancora vivo.
Font: Paolo Mastrolilli per "La Stampa"
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