Tuesday, July 4, 2023

July 4, 2023....The Unanimous Declaration of the Thirteen United States of America


The Unanimous Declaration of the Thirteen United States of America.

Dichiarazione unanime dei 13 Stati Uniti d’America



When, in the course of human events, it becomes necessary for one people to dissolve the political bands which have connected them with another and to assume among the powers of the earth the separate and equal station to which the laws of nature and of nature's God entitle them, a decent respect to the opinions of mankind requires that they should declare the causes which impel them to the separation.

Quando, nel corso delle vicende umane, diventa necessario per un Popolo sciogliere i legami politici che lo hanno vincolato ad un altro ed assumere il rango eguale e separato al quale le leggi di Natura e la natura di Dio gli danno diritto tra le potenze della Terra, il rispetto del giudizio del genere umano richiede che esso dichiari le ragioni che lo spingono alla separazione.

 

We hold these truths to be self-evident,

Noi consideriamo le seguenti Verità evidenti di per sé:

 

-         that all men are created equal,

-         che tutti gli uomini sono creati eguali,

 

-                     that they are endowed by their Creator with certain unalienable rights,

-                     che essi sono stati dotati di alcuni diritti inalienabili dal loro Creatore,

 

-                     that among these are life, liberty and the pursuit of happiness,

-                     che tra questi diritti ci sono la vita, la libertà e il perseguimento della felicità,

 

-         that to secure these rights, governments are instituted among men, deriving their just powers from the consent of the governed,

-         che per assicurare questi diritti sono istituite tra gli uomini delle forme di governo che traggono il loro giusto potere dal consenso di coloro che sono governati,

 

-         that whenever any form of government becomes destructive to these ends, it is the right of the people to alter or to abolish it and to institute new government, laying its foundation on such principles and organizing its powers in such form, as to them shall seem most likely to effect their safety and happiness.

-         Che ogniqualvolta una forma di governo diventa distruttiva di queste finalità è diritto del Popolo modificarla o abolirla ed istituire un nuovo governo, posando le sue fondamenta su tali principi ed organizzandone il potere nella forma che pare la migliore per realizzare la propria sicurezza e felicità.

 

-         Prudence, indeed, will dictate that governments long established should not be changed for light and transient causes; and accordingly all experience hath shown that mankind are more disposed to suffer, while evils are sufferable, than to right themselves by abolishing the forms to which they are accustomed. But when a long train of abuses and usurpations, pursuing invariably the same object evinces a design to reduce them under absolute despotism, it is their right, it is their duty, to throw off such government, and to provide new guards for their future security.

-         La prudenza, in verità, detta che governi in vigore da molto tempo non siano cambiati per motivi futili e passeggeri; e conformemente l’esperienza ha mostrato che il genere umano è più disposto a soffrire, finché i mali siano sopportabili, piuttosto che raddrizzarsi abolendo le forme alle quali si è abituato; ma quando una lunga serie di abusi e di usurpazioni, mirate invariabilmente allo stesso scopo mostra il progetto di ridurlo sotto un dispotismo assoluto, è suo diritto, è suo dovere rovesciare tale governo e procurare nuove salvaguardie per la sua futura sicurezza.

 

-         Such has been the patient sufferance of these colonies; and such is now the necessity which constrains them to alter their former systems of government. The history of the present King of Great Britain is a history of repeated injuries and usurpations, all having in direct object the establishment of an absolute tyranny over these states. To prove this, let facts be submitted to a candid world.

-         Tale è stata la paziente sofferenza di queste colonie e tale è ora la necessità che le costringe ad alterare le precedenti forme di governo. La storia dell’attuale Re d’Inghilterra è una storia di offese ed usurpazioni ripetute, aventi tutte l’obiettivo diretto di stabilire una tirannia assoluta su questi Stati. Per provare questo, siano i fatti sottoposti all’onestà del mondo.

 

-         He has refused his assent to laws, the most wholesome and necessary for the public good.

-         Egli ha rifiutato il suo consenso alle leggi più sane e necessarie per il bene pubblico.

 

-         He has forbidden his governors to pass laws of immediate and pressing importance, unless suspended in their operation till his assent should be obtained; and when so suspended, he has utterly neglected to attend to them.

-         Egli ha proibito ai suoi governatori di approvare leggi d’importanza immediata ed urgente, a meno di sospenderne l’operatività fino all’ottenimento del suo consenso e, dopo averle sospese, Egli le ha totalmente trascurate.

 

-         He has refused to pass other laws for the accommodation of large districts of people, unless those people would relinquish the right of representation in the legislature, a right inestimable to them and formidable to tyrants only.

-         Egli ha rifiutato di approvare altre leggi per la sistemazione di vasti distretti popolari, a meno che quella popolazione non rinunciasse al diritto di rappresentanza nella legislatura, un diritto inestimabile per essa e terribile solo per dei tiranni.

 

-         He has called together legislative bodies at places unusual, uncomfortable, and distant from the depository of their public records, for the sole purpose of fatiguing them into compliance with his measure.

-         Egli ha riunito corpi legislativi in luoghi inusuali, scomodi e distanti dai depositi dei loro pubblici registri per il solo scopo di costringerli all’obbedienza ai suoi provvedimenti.

 

-         He has dissolved representative houses repeatedly, for opposing with manly firmness his invasions on the rights of the people.

-         Egli ha sciolto ripetutamente le Camere dei Rappresentanti perché questi s’erano fermamente opposti alle sue prevaricazioni dei diritti del Popolo.

 

-         He has refused for a long time, after such dissolutions, to cause others to be elected; whereby the legislative powers, incapable of annihilation, have returned to the people at large for their exercise; the state remaining in the meantime exposed to all the dangers of invasion from without, and convulsions within.

-         Dopo tali scioglimenti Egli ha rifiutato a lungo di far sì che altri fossero eletti, per cui i poteri legislativi, impossibili da annullare, sono tornati al Popolo perché li esercitasse, restando intanto lo Stato esposto a tutti i pericoli d’invasioni da fuori e di disordini all’interno.

 

-         He has endeavored to prevent the population of these states, for that purpose obstructing the laws for naturalization of foreigners, refusing to pass others to encourage their migration hither, and raising the conditions of new appropriations of lands.

-         Egli si è sforzato di prevenire il popolamento di questi Stati, ostacolando allo scopo le leggi per la naturalizzazione degli stranieri, rifiutando di promuovere altri ad incoraggiare migrazioni e creando le condizioni per nuove appropriazioni di terre.

 

-         He has obstructed the administration of justice, by refusing his assent to laws for establishing judiciary powers.

-         Egli ha ostacolato l’amministrazione della Giustizia, rifiutando il consenso a leggi per la creazione di poteri giudiziari.

 

-         He has made judges dependent on his will alone, for the tenure of their offices, and the amount and payment of their salaries.

-         Egli ha reso I Giudici dipendenti esclusivamente dalla sua volontà nella tenuta dei loro uffici e l’ammontare dei loro salari e il relativo pagamento;

 

-         He has erected a multitude of new offices, and sent hither swarms of officers to harass our people, and eat out their substance.

-         Egli ha eretto una moltitudine di nuovi uffici e mandato sciami di ufficiali per vessare la nostra gente e divorare i loro beni.

 

-         He has kept among us, in times of peace, standing armies without the consent of our legislature.

-         Egli ha mantenuto tra noi, in tempo di pace, forze armate senza il consenso della nostra legislazione.

 

-         He has affected to render the military independent of and superior to civil power.

-         Egli ha influito per rendere l’esercito indipendente dai poteri civili e ad essi superiore.

 

-         He has combined with others to subject us to a jurisdiction foreign to our constitution and unacknowledged by our laws, giving his assent to their acts of pretended legislation.

-         Egli s’è unito con altri per assoggettarci ad una giurisdizione estranea alla nostra costituzione e non riconosciuta dale nostra leggi, dando il suo consenso alle presunte azioni legislative di quelli.

 

-         For quartering large bodies of armed troops among us, for protecting them, by mock trial, from punishment for any murders which they should commit on the inhabitants of these states, for cutting off our trade with all parts of the world, for imposing taxes on us without our consent, for depriving us in many cases, of the benefits of trial by jury, for transporting us beyond seas to be tried for pretended offenses, for abolishing the free system of English laws in a neighboring province, establishing therein an arbitrary government, and enlarging its boundaries so as to render it at once an example and fit instrument for introducing the same absolute rule in these colonies, for taking away our charters, abolishing our most valuable laws, and altering fundamentally the forms of our governments, for suspending our own legislatures, and declaring themselves invested with power to legislate for us in all cases whatsoever, He has abdicated government here, by declaring us out of his protection and waging war against us.

-         Per aver dislocato in mezzo a noi corpi armati di grandi proporzioni, per averli protetti con finti processi dalla punizione dei loro delitti contro gli abitanti di questi Stati, per aver stroncato i nostri commerci con ogni parte del mondo, per aver imposto tasse senza il nostro consenso, per averci privato in molti casi del beneficio di un processo con giuria, per averci tradotto oltremare per esser processati per presunti reati, per aver abolito il libero sistema di leggi inglesi in una provincia confinante, istituendovi un governo arbitrario ed espandendone i confini per farne immediato esempio e strumento appropriato per introdurre le stesse regole assolute in queste colonie, per averci sottratto le nostre carte, abolendo le nostre leggi più valide ed alterando sostanzialmente le forme dei nostri governi, per sospendere le nostre legislature e investire quelle del potere di legiferare per noi in ogni caso e per sempre, Egli ha abdicato al suo governo qui, dichiarandoci fuori della sua protezione e muovendo guerra contro di noi.

 

-         He has plundered our seas, ravaged our coasts, burned our towns, and destroyed the lives of our people.

-         Egli ha saccheggiato i nostri mari, razziato le nostre coste,bruciato le nostre città e distrutto le vite della nostra gente.

 

-         He is at this time transporting large armies of foreign mercenaries to complete the works of death, desolation and tyranny, already begun with circumstances of cruelty and perfidy scarcely paralleled in the most barbarous ages and totally unworthy of the head of a civilized nation.

-         Egli sta in questo momento trasportando grandi eserciti di mercenari stranieri per completare il suo lavoro di morte, desolazione e tirannia, già cominciato in circostanze di una crudeltà e perfidia che difficilmente trovano paralleli nelle età più barbare e del tutto indegno del capo di una nazione civile.

 

-         He has constrained our fellow citizens taken captive on the high seas to bear arms against their country, to become the executioners of their friends and brethren, or to fall themselves by their hands.

-         Egli ha costretto i nostri concittadini presi prigionieri in alto mare a prendere le armi contro il loro paese, a diventare i boia dei loro fratelli ed amici, oppure cadere essi stessi per mano loro.

 

-         He has excited domestic insurrections amongst us and has endeavored to bring on the inhabitants of our frontiers, the merciless Indian savages, whose known rule of warfare is undistinguished destruction of all ages, sexes and conditions.

-         Egli ha stimolato insurrezioni interne tra di noi e si è industriato di provocare gli abitanti delle nostre frontiere, i selvaggi e spietati Indiani, le cui ben note regole di guerra sono l’indiscriminata distruzione di gente d’ogni età, sesso e condizione.

 

In every stage of these oppressions we have petitioned for redress in the most humble terms.

Our repeated petitions have been answered only by repeated injury.

A prince, whose character is thus marked by every act which may define a tyrant, is unfit to be the ruler of a free people.

In ogni momento di queste oppressioni abbiamo fatto petizioni nei termini più umili per ristabilire l’equilibrio. Le nostre ripetute richieste hanno ottenuto in risposta soltanto ripetute offese.

Un Principe, il cui carattere è così contrassegnato da azioni tipiche di un tiranno è inadatto a governare un Popolo libero.

 

Nor have we been wanting in attention to our British brethren.

We have warned them from time to time of attempts by their legislature to extend an unwarrantable jurisdiction over us.

Né abbiamo mancato di attenzione ai nostri fratelli inglesi.

Noi li abbiamo avvisati di quando in quando dei tentativi della loro legislazione di estendere un’ingiustificabile giurisdizione sopra di noi.

 

We have reminded them of the circumstances of our emigration and settlement here.

We have appealed to their native justice and magnanimity and we have conjured them by the ties of our common kindred to disavow these usurpations, which would inevitably interrupt our connections and correspondence.

Noi abbiamo ricordato loro le circostanze della nostra migrazione e colonizzazione di queste terre.

Noi ci siamo appellati al loro innato senso di giustizia e magnanimità e li abbiamo scongiurati per i legami della nostra affinità di spirito di rinnegare queste usurpazioni, le quali avrebbero inevitabilmente spezzato i nostri legami e corrispondenze.

 

We must therefore acquiesce in the necessity which denounces our separation and hold them, as we hold the rest of mankind, enemies in war, in peace friends.

Dobbiamo perciò accettare la necessità che denuncia la nostra separazione e considerarli come consideriamo il resto del genere umano: nemici in guerra, in pace amici.

 

We, therefore, the representatives of the United States of America, in General Congress, assembled, appealing to the Supreme Judge of the world for the rectitude of our intentions, in the name and by the authority of the good people of these colonies, do solemnly publish and declare that these united colonies are and of right ought to be free and independent states; that they are absolved from all allegiance to the British Crown and that all political connection between them and the state of Great Britain is and ought to be totally dissolved and that, as free and independent states, they have full power to levey war, conclude peace, contract alliances, establish commerce and to do all other acts and things which independent states may of right do.

For the support of this declaration, with a firm reliance on the protection of Divine Providence, we mutually pledge to each other our lives, our fortunes and our sacred honor.

Pertanto, noi, rappresentanti degli Stati Uniti d’America, in Congresso Generale riuniti, facendo appello al Supremo Giudice del mondo per la giustezza delle nostre intenzioni, nel nome e per l’autorità della buona gente di queste colonie, solennemente e pubblicamente dichiariamo che queste colonie unite sono e per diritto devono essere Stati indipendenti e liberi; che sono sciolti da qualsiasi obbligo di fedeltà alla Corona inglese e che tutti i legami politici tra esse e lo Stato di Gran Bretagna è e deve essere del tutto dissolto e che, come Stati indipendenti, esse hanno pieni poteri di muover guerra, concludere pace, trattare alleanze, stabilire commerci e fare tutte le altre azioni e cose che gli Stati indipendenti possono fare per diritto.

A sostegno di questa Dichiarazione, affidandoci fermamente alla protezione della Divina Provvidenza, reciprocamente ci impegniamo con le nostre vite, le nostre fortune ed il nostro sacro onore.

 

 

Adams, Saml.

Heyward, Thos. Jr.

Rodney, Caesar

Adams, John

Hooper, Wm.

Ross, Geo.

Bartlett, Josiah

Hopkins, Step.

Rush, Benjamin

Braxton, Carter

Hopkinson, Fras.

Rutledge, Edward

Carroll of Carrollton, Charles

Huntington, Samuel

Sherman, Roger

Chase, Samuel

Jefferson, Th.

Smith, Jas.

Clark, Abra.

Lewis, Frans.

Stockton, Richd.

Clymer, Geo.

Lightfoot Lee, Francis

Stone, Thos.

Ellery, William

Livingston, Phil.

Taylor, Geo.

Floyd, Wm.

Lynch, ThomasJr.

Thornton, Matthew

Franklin, Benjamin

Mckean, Tho.

TreatPaine, Robt.

Gerry, Elbridge

Middleton, Arthur

Walton, Geo.

Gwinnett, Button

Morris, Robt.

Whipple, Wm.

Hall, Lyman

Morris, Lewis

Williams, Wm.

Hancock, John

Morton, John

Wilson, James

Harrison, Benjamin

Nelson, Thos.Jr.

Witherspoon, Jno.

Hart, John

Paca, Wm.

Wolcott, Oliver

Henry Lee, Richard

Penn, John

Wythe, George

Hewes, Joseph

Read, Geo.


[Adopted in Congress 4 July 1776]

[Adottata in Congresso il 4 Luglio 1776]

Thursday, June 15, 2023

Il fondatore della Marina israeliana.

Nato a San Benedetto del Tronto l’8 settembre 1909, Fiorenzo Capriotti si arruola nella Regia Marina dove serve come incursore della X Flottiglia MAS, unità d’assalto che negli anni dal 1940-1943 compie audaci operazioni nel Mediterraneo, fra le quali l’affondamento di due corazzate nel porto inglese di Alessandria d’Egitto e un attacco su Malta al termine del quale il giovane Fiorenzo è catturato dal nemico. 
Da prigioniero Capriotti “visita” molti campi: Inghilterra, Texas, Hawaii e Italia centrale dove, a conflitto finito, è internato nell’ R707 “Recalcitrant”, ex campo tedesco nell’attuale zona industriale di Maratta bassa riconvertito dagli anglo-americani in polo detentivo per i recalcitranti, cioè per i fascisti più duri. 
Al tempo di quelle strutture a Terni ce ne sono tre: il Civil Internee Camp il cui ingresso è tutt’ora localizzabile in Piazzale Donegani (polo chimico) e che ospita civili e spie legati alla RSI (fra loro la moglie di Mussolini e la sua famiglia); l’ex SPEA un terreno della Marina Militare (è rimasto al demanio militare fino al 2007) dove ufficiali e marinai non cooperanti sono costretti al lavoro forzato dai britannici e, infine, il “707” di via dei Laghetti (di fronte al quale ora sorge il carcere di Sabbione) ricavato da una polveriera e che conserva buona parte dei muri di cinta, del filo spinato, delle torrette in mattoni, dei faretti così e della pista, in terra battuta, percorsa dai prigionieri sotto la severa e, forse un po’ sadica, supervisione di un ufficiale polacco armato di frusta. 

Storie e luoghi dimenticati ma tornati a galla, alcuni anni fa, grazie anche all’opera del ricercatore orvietano Sandro Bassetti con il suo Terni. Tre lager per fascisti (Lampi di Stampa, 2010).   
Fiorenzo è bollato come “recalcitrant” non perché abbia combattuto a Salò (poiché prigioniero ben prima  dell’Armistizio dell’8 settembre 1943), ma per aver rifiutato ogni collaborazione con gli Alleati. Il campo chiude alla fine nel 1945 e gli internati tornano alla vita civile. 
Quanto a Fiorenzo, il destino gli riserva qualcosa di particolare: un viaggio in Israele con una raccomandazione dei servizi segreti italiani. “Mi dissero - c’è un lavoro per te, uno di quelli che tu sai fare bene-” racconta in seguito il marinaio marchigiano che nel 1947 parte alla volta del neonato stato mediorientale, che in quel periodo si prepara alla prima guerra arabo-israeliana. 
Il “lavoro” è addestrare marinai per azioni contro l’Egitto eseguite a bordo di veloci mezzi navali prodotti in Italia. Un documento de-secretato dei servizi americani segnala, infatti, che nel ’47 Israele ha acquistato dall’Italia barchini MTM, gli stessi mezzi navali usati dalla Decima MAS nel Mediterraneo e pilotati da specialisti come Capriotti. Il training di Fiorenzo va a buon fine e, nell’ottobre 1948, gli incursori di Tel Aviv fanno colare a picco l’ammiraglia egiziana “El Emir Farouk” ormeggiata nel porto di Gaza. 

È la prima azione della futura Shayetet 13, la 13° Flottiglia ancora oggi operativa nella HaYam HaYsraeli. La professionalità del marò italiano resta a lungo impressa nella memoria delle Israeli Defense Forces tanto da dedicargli parole di elogio e una carica, onoraria, di un certo prestigio: “Fiorenzo Capriotti, che combatté nella gloriosa unità d'avanguardia "Decima Flottiglia MAS" della Marina Militare Italiana durante la seconda guerra mondiale; che ci è stato di grande aiuto nel fondare e addestrare l'unità di comando della nostra marina, durante la Guerra d'Indipendenza, identificandoci totalmente con essa, con devozione e spirito di sacrificio a suo rischio e pericolo. In riconoscimento di questo contributo alla rinascita dello stato di Israele, gli offriamo in omaggio il titolo di: Comandante ad honorem della tredicesima flotta ". 

È il 22 ottobre 1992; Capriotti morirà a 99 anni nel 2008.


Saturday, June 3, 2023

Trattativa, l’ex capo dei Servizi Fulci: “la Falange chiamava dalle sedi Sismi, alcuni 007 usavano esplosivi”



La rivelazione al processo Trattativa dell'ambasciatore, ai vertici del Cesis tra il 1991 e il 1993 sulla sigla oscura che rivendicava omicidi e stragi nei primi anni '90. "Un analista del Sisde mi portò la mappa dei luoghi da dove partivano le chiamate e quella delle sedi periferiche del Sismi: coincidevano perfettamente". Poi aggiunge: ""All’interno dei servizi c’è una cellula che si chiama Ossi, esperta nel piazzare polveri, fare attentati"

Quindici agenti segreti super addestrati sospettati di essere collegati con le bombe del 1993, e le telefonate della Falange Armata che partivano dalle sedi coperte del Sismi. È un racconto che arriva dal passato l’ultimo tassello inedito sulla Falange Armata, l’oscura sigla criminale che nei primi anni Novanta rivendicava ogni singolo fatto di sangue andato in onda nel Paese: dai delitti della banda della Uno bianca alle stragi mafiose del 1992 e 1993. Un mistero mai risolto quello dei telefonisti del terrore che chiamavano i centralini dell’agenzia Ansa per firmare eccidi e stragi con cui nulla avevano probabilmente a che fare. Adesso però, a più di vent’anni di distanza, emerge un particolare nuovo: quelle chiamate sarebbero state fatte dalle stessa zone in cui all’epoca il Sismi aveva localizzato le sue basi periferiche. A raccontarlo è l’ambasciatore Francesco Paolo Fulci, punta di diamante della diplomazia italiana negli anni ’80, al vertice del Cesis (Comitato esecutivo per i servizi di informazione e sicurezza) tra il 1991 e il 1993, ex presidente della Ferrero deceduto 21 gennaio 2022.

Le chiamate del terrore dalle sedi del Sismi

“C’era questa storia della Falange Armata e allora incaricai questo analista del Sisde, si chiamava Davide De Luca (oggi deceduto ndr), gli chiesi di lavorare sulle rivendicazioni”, è l’incipit del racconto di Fulci, che dopo essere stato interrogato dai pm di Palermo Roberto Tartaglia e Nino Di Matteo nell’aprile del 2014, ha deposto oggi al processo sulla Trattativa Stato – mafia. “Dopo alcuni giorni De Luca venne da me e mi disse: questa è la mappa dei luoghi da dove partono le telefonate e questa è la mappa delle sedi periferiche del Sismi in Italia, le due cartine coincidevano perfettamente, e in più De Luca mi disse che le chiamate venivano fatte sempre in orario d’ufficio”, racconta Fulci nell’aula bunker del carcere Ucciardone, davanti alla corte d’Assise di Palermo, che sta processando politici, boss mafiosi e ufficiali dei carabinieri per il patto segreto tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra. Ma perché pezzi del Sismi avrebbero dovuto rivendicare le stragi di mafia? Fulci non lo dice, spiega però di “essersi convinto che tutta questa storia della Falange Armata faceva parte di quelle operazioni psicologiche previste dai manuali di Stay Behind, facevano esercitazioni, creare il panico in mezzo alla gente e creare le condizioni per destabilizzare il Paese”.

Questa è la mappa dei luoghi da dove partono le telefonate e questa è la mappa delle sedi periferiche del Sismi in Italia: le due cartine coincidevano perfettamente.

Falange, Gladio e la guerra non convenzionale

Nel gergo militare si chiama guerra non convenzionale: una strategia che prevede anche l’inquinamento dei flussi informativi, per aumentare il livello di tensione. È a questo che servono le chiamate della Falange nei primi anni Novanta quando le stragi al tritolo sconquassano l’Italia? Per contestualizzare il racconto di Fulci, bisogna fare un salto indietro nel tempo e arrivare fino al 27 ottobre del 1990  quando al centralino dell’Ansa di Bologna arriva arriva una chiamata che rivendica l’omicidio di Umberto Mormile, educatore carcerario del penitenziario milanese di Opera, ucciso sei mesi prima.  “Il terrorismo non è morto, ci conoscerete in seguito” recita una voce al telefono: è la prima rivendicazione della Falange Armata, che arriva due giorni dopo il celebre discorso con cui Giulio Andreotti rivela alla Camera dei Deputati l’esistenza di Gladio, affiliata alla rete Stay Behind, l’organizzazione militare segreta costituita in ottemperanza al Patto Atlantico. Fulci non collega esplicitamente le telefonate della Falange a Gladio, ma si lascia sfuggire: “forse in effetti si trattava di qualche nostalgico”.

L’elenco dei 15 agenti segreti e le bombe del ’93

Ma non solo. Perché nella sua permanenza ai vertici del Cesis, Fulci non riceve informazioni solo sulle telefonate della Falange. Scopre infatti che dentro la VII divisione del Sismi esiste un servizio speciale coperto composto da 15 agenti segreti super addestrati. “All’interno dei Servizi c’è solo una cellula che si chiama Ossi, che è molto esperta nel fare guerriglia urbana, piazzare polveri, fare attentati”, ha spiegato Fulci nella sua deposizione. Si riferisce agli Operatori Speciali Servizio Italiano, che un documento riservato del Sismi definisce come “personale specificatamente addestrato per svolgere in territorio ostile e in qualsiasi ambiente, attività di carattere tecnico e operativo connesse con la condotta della guerra non ortodossa”. Nei due anni trascorsi al vertice del Cesis, Fulci riceve minacce di ogni genere, scopre addirittura di essere spiato nella sua stessa abitazione: chiede e ottiene, quindi di avere tutti i nomi che fanno parte di quel reparto speciale. “Li copiai su un foglietto che nascosi poi nella mia libreria, dicendo a mia moglie che se fosse successo qualcosa era lì che bisognava cercare: dopo aver lasciato l’incarico ed essere andato a New York alle Nazioni Unite provai a dimenticare quella brutta esperienza”.

All’interno dei Servizi c’è solo una cellula che si chiama Ossi, che è molto esperta nel fare guerriglia urbana, piazzare polveri, fare attentati.

“Riina chiudi la bocca”: il ritorno della Falange

E invece pochi mesi dopo avere lasciato l’Italia, Fulci si ricorda di quel foglietto con quei 15 nomi. “Dovete considerare- ha spiegato Fulci – che i servizi devono raccogliere informazioni, non utilizzare esplosivi e bombe, piazzare polveri e cose simili. Siccome avevo letto le notizie di queste bombe a Firenze e a Roma e i giornali facevano cenno ai soliti servizi deviati, mi dissi: questa cosa si può chiarire. Presi il foglietto e lo portai generale dei carabinieri Luigi Federici spiegandogli: per essere certi che i servizi non c’entrano niente, questi sono i nomi delle persone che sanno maneggiare esplosivi all’interno dei servizi”. Ai quindici nomi, però, Fulci ne aggiunge un altro: quello del colonnello Walter Masina, che però non fa parte della VII divisione e degli Ossi. “Non avrei dovuto farlo ma volevo fargliela pagare, dato che Masina era quello che spiava la mia abitazione”. Cosa succede dopo che Fulci consegna quell’elenco ai carabinieri? “Mi accusarono di avere montato un depistaggio con gli americani“. È mentre la denuncia di Fulci cade nel vuoto, le stragi targate Cosa Nostra finiscono all’improvviso,  la prima Repubblica è ormai crollata sotto il peso di Tangentopoli e parallelamente scompaiono pure le rivendicazioni della Falange. Un silenzio durato fino al dicembre del 2013, quando al carcere di Opera, a Milano, arriva una lettera indirizzata al superboss Totò Riina. C’è scritto: “Riina chiudi la bocca, ricordati che i tuoi familiari sono liberi, al resto ci pensiamo noi”. Sono i mesi in cui il boss corleonese si lascia andare a confidenze e rivelazioni durante l’ora d’aria, mentre la Dia di Palermo registra ogni cosa: un’informazione nota soltanto agli investigatori. Chi è dunque che manda quella lettera? La firma è sempre la stessa: Falange Armata.

font: 


Gladio parallela? "Quel documento è un passo indietro"





Giovanni Spinosa, che a lungo da magistrato ha indagato sui delitti della Uno Bianca e sulla Falange armata, dice la sua sul documento che attesterebbe la seconda vita di Gladio: "È un'operazione deviante"

Da quando il settimanale Tpi ha pubblicato un documento inedito in cui si parla della possibile creazione di una struttura segreta in seno alla VII Divisione del Sismi, sono passati ormai due mesi. Il documento in oggetto, datato 13 luglio 1990, è stato presentato come attestante la seconda vita di Gladio, la costola italiana dello Stay Behind americano che tanto piace scomodare – spesso a sproposito - quando c’è odore di complotto o, in generale, puzza di bruciato.

E anche in questo caso, benché il documento sia effettivamente interessante e a suo modo clamoroso, non si comprende per quale motivo se ne attribuisca la paternità all’organizzazione semi-clandestina di ambito Nato che di lì a poco (nell’ottobre del 1990) verrà sciolta.

Certo, VII Divisione del Sismi e Gladio fanno il paio perfetto, naturale dunque fare un immediato collegamento. Ma poi, fatto il collegamento, bisogna approfondire, perché le cose che non tornano riguardo questo documento sono molte. E nessuno, fin ora, ha provato a spiegarle se non ilGiornale.it.

Dopo esserci interrogati sull’autenticità o meno di questo documento, ci siamo chiesti se avesse senso lasciare nero su bianco la proposta di formare una squadra cui affidare operazioni sporche; ci siamo anche chiesti, dando per buono che il contesto in cui si inserisce il tutto sia riconducibile a Gladio, che senso avesse fare una proposta simile quando la fine dell’organizzazione era ormai prossima (ben ne erano consapevoli gli addetti ai lavori).

Queste e molte altre domande le abbiamo poste a Giovanni Spinosa, magistrato da poco in pensione. Titolare dell’indagine sui crimini della Uno Bianca, avvenuti tra Emilia Romagna e Marche tra il 1987 e il 1994, recentemente ha dato alle stampe per Piemme, insieme a Michele Mengoli, il libro Falange armata, storia del golpe sconosciuto che ha ridisegnato l’Italia. Profondo conoscitore delle trame criminali ed eversive che hanno attraversato come corrente elettrica l’Italia in un periodo di passaggio tra il mondo della Prima e della Seconda Repubblica, il dottor Spinosa ha detto la sua sul documento: “Nella migliore delle ipotesi lo considero un falso. Nella più credibile è un’operazione deviante”.

Il magistrato ci spiega la sua teoria: nel luglio del 1990, la Falange armata si è da poco strutturata. L’11 aprile avviene il primo omicidio – quello dell’educatore carcerario Umberto Mormile – che sarà però rivendicato il 27 ottobre 1990, solo tre giorni dopo il discorso in cui il presidente del Consiglio italiano, Giulio Andreotti, rivela l’esistenza di Gladio “Se questo documento del luglio del 1990 allude a qualcosa di reale e di concreto, questo qualcosa in Italia, in quel momento, si sta già strutturando. Ed è appunto la Falange Armata. Mi sembra però che, rispetto a questa realtà eversiva che già muove i primi passi, l’idea che qualcuno proponga di costituire un’analoga realtà eversiva sia qualcosa di totalmente anomalo. Qualcosa che anticipa poi altre operazioni depistanti, come il tentativo di ricondurre la Falange Armata alla VII Divisione che viene fatta con l'operazione Fulci”.



Francesco Paolo Fulci, già segretario generale del Cesis [organo di coordinamento dei servizi segreti italiani dal 1978 al 2007, ndr] e allora ambasciatore presso le Nazioni Unite, nel 1993 stilò una lista – poi consegnata alla Procura di Roma, che aprì un’inchiesta terminata con un nulla di fatto – con 16 nomi. Tutti ufficiali della VII Divisione del Sismi, indicati come i telefonisti della Falange armata, definita una diretta prosecuzione di Gladio. Di più: Fulci disse di aver individuato alcuni dei luoghi da cui erano partite alcune delle telefonate che per diversi anni rivendicarono qualsiasi genere di crimine efferato (tra cui quasi tutte le principali stragi di mafia). Si trattava di telefoni ubicati nei pressi di sedi nella disponibilità del Simi. Un’affermazione ad oggi non verificata.

Secondo l’ex magistrato Spinosa, tutta l’operazione è una sottilissima costruzione depistante. Il 1993 è anche l’anno del cosiddetto Sisde Gate, lo scandalo che investì i vertici dei servizi segreti civili, colpevoli di aver sperperato cifre da capogiro per interesse personale, e che mise in seria difficoltà l’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, che parlò di un “gioco al massacro”. La stessa cosa che ci conferma il dott. Spinosa: “In quel periodo non sono mancati i colpi bassi, anche all’interno dei corpi dello Stato, tra diversi apparati”.

Se l’ambasciatore Fulci fosse consapevole dell’operazione di cui si stava facendo illustre portavoce (se di operazione si tratta, naturalmente) l’ex magistrato non lo sa. Ipotesi, le sue. Come d’altronde, in mancanza di riscontri, quelle di Fulci: “L’ipotesi Fulci è fantasmagorica e non mi capacito del credito che le è stato dato. Sulla base di una mappa dei luoghi di provenienza delle telefonate, che nessuno conosce, e sulla loro vicinanza alle sedi del Sismi, si accusano 16 ufficiali del servizio segreto militare di aver preso parte a un disegno eversivo di proporzioni gravissime. Noi conosciamo il luogo di provenienza solo della prima telefonata della Falange armata, che è partita da una stazione di servizio sull’autostrada Milano-Bologna, nei pressi di Modena. Ce lo dicono i pentiti e abbiamo altri riscontri. Ma le altre? Chi le conosce? Davvero dobbiamo pensare che dei super agenti specializzati come erano i 16 del Sismi siano stati impiegati per fare delle telefonate? Mi sembra un’ipotesi che non sta né in cielo né in terra…”

E il documento di cui stiamo parlando, secondo Spinosa, ripropone una lettura simile, accollando al Sismi altri pesantissimi sospetti. La domanda allora viene spontanea: si è mai scavato nell’opposta direzione? O meglio, si è mai indagato sul ruolo giocato dal Sisde in questa vicenda che parte dal 13 luglio 1990 e arriva al 1993 e alla lista Fulci?

“Non è che non si sia scavato nell’opposta direzione. Non si è scavato proprio. C’è un equivoco di fondo: l’aver ridotto la Falange Armata a dei telefonisti. È una struttura che prepara, organizza, teorizza e realizza un progetto eversivo. È molto di più che semplici “telefonisti”. Non so come si è arrivati alla scoperta di questo documento tra le tante carte che erano sepolte in qualche ufficio. Non lo so e, non sapendolo, non posso dire ne immaginare nulla. Certo è che questo è un momento nel quale si sta riflettendo su quel periodo, e lo si sta facendo in termini molto nuovi e diversi rispetto a quanto fatto finora. Il riproporre l’ipotesi Sismi, la VII Divisione, un’organizzazione più o meno collegata al Sismi, mi pare che sia – al di là delle intenzioni, certamente meritorie - un passo indietro rispetto a quello che oggi si sta cercando di fare, ovvero ricondurre il tutto non al Sismi ma anche soprattutto ad altri apparati dello Stato. Questo si pone probabilmente in una situazione di conflittualità all’interno degli apparati dello Stato all’epoca esistenti e tutt’oggi riprodotti con delle situazioni attraverso le carriere…”

Insomma, una sorta di guerra tra bande senza esclusione di colpi. E tra soggetti mai identificati che, ancora oggi, potrebbero ricoprire ruoli chiave: “Non è stato arrestato nessuno, l’unico [Carmelo Scalone, assolto in Cassazione nel 2002, ndr] si è scoperto che non c’entrava nulla. Ma la Falange armata continua a esistere. È un’entità molto reale. E non è vero che non sono stati individuati i componenti. Semplicemente non sono stati cercati”.

E il pensiero torna sempre alla lista Fulci: “L’ipotesi Fulci è talmente paradossale che la vera domanda è: quale substrato culturale ha consentito che un'ipotesi del genere potesse avere un prestigio e una diffusione come quella che ha avuto? Il punto non è: Sismi o Sisde, polizia o carabinieri. Il punto è: persone che fanno delle telefonate o persone che formano una rete eversiva effettiva, che mettono le bombe, che sparano veramente e uccidono? Il punto vero è questo. Non mi sorprenderei nemmeno che all’interno di una prevalenza di uomini vicini al ministero dell’interno possano esserci stati anche uomini vicini al ministero della difesa, e uso questi termini per indicare la casacca e non per limitarci a parlare di servizi segreti. Parliamo di apparati, e quindi di un termine che va oltre. Per esempio, a qualcuno è mai venuto in mente di scavare nei Sios?”.

Per quanto ne sappiamo no. Il ruolo ipotetico dei servizi segreti interni delle rispettive forze armate [esistiti in questa forma fino al 1997, ndr] viene spesso ignorato. Tirando le fila però una cosa la possiamo dire: falso o no, qualunque sia la natura di questo documento, vecchi fantasmi tornano ad agitarsi con un tempismo che – a trent’anni dalle stragi del 1993 – mette i brividi.


font: Gianluca Zanella






"La Cia sapeva tutto": l'inquietante verità dietro la morte dell'incursore della Folgore.





Marco Mandolini viene brutalmente ucciso, ufficialmente, il 13 giugno 1995. Eppure un generale dell'esercito americano di stanza in Italia, una donna molto vicina alla Cia, ha riferito al fratello della vittima che l'intelligence americana sapeva tutto 24 ore prima, il 12 giugno.

La Cia sapeva dell’omicidio di un incursore della Folgore con 24 ore di anticipo rispetto al giorno ufficiale del decesso. E la notizia potrebbe aprire scenari imprevedibili. Come nelle migliori trame di film di spionaggio, l’intelligence statunitense è sempre un passo avanti. Ma occorre andare per ordine e spiegare bene di cosa si stia parlando.

Quella di Marco Mandolini è una storia brutale, misteriosa, triste. Brutale perché Marco Mandolini viene massacrato il 13 giugno 1995 con 40 coltellate. A seguire, probabilmente mentre era già morto o agonizzante, la sua testa è stata schiacciata da un masso di oltre 20 chili. Misteriosa perché Marco Mandolini era un parà della Folgore, uno 007 del Sismi, un addestratore Gladio che, dopo lo scioglimento della struttura semi-clandestina – avvenuta nel 1990-, diventa addestratore Nato in Germania.

In stretti rapporti con Vincenzo Li Causi, conosciuto nella base militare di Capo Marrargiu e frequentato professionalmente mentre questi era a capo del Centro Scorpione di Trapani, nel 1995 Mandolini sta indagando informalmente sulla morte del collega e amico, avvenuta in Somalia due anni prima in circostanze poco chiare.

Triste perché Marco Mandolini è stato dimenticato. Non tanto dall'opinione pubblica (dopotutto - in quei primi anni novanta - gli agenti segreti morti sono tanti, difficile ricordarli tutti), quanto dai suoi stessi commilitoni. Dai militari della Folgore.

Quando Marco Mandolini viene ucciso, si trova in permesso presso la caserma Vannucci di Livorno, il che è come dire "a casa". La Folgore è la sua vita. Alla Folgore ha dedicato tutto. E nella Folgore, Mandolini ha fatto carriera, fino a diventare capo scorta del generale Bruno Loi durante la missione Ibis. Siamo in Somalia, fronte caldo, rovente, della cooperazione internazionale. L'Italia è una presenza ingombrante in quel paese, quasi al pari degli Stati Uniti.

Subito dopo il suo ritrovamento presso la scogliera del Romito, a meno di 10 chilometri dalla caserma Vannucci, iniziano a circolare le voci: si è trattata di una questione tra omosessuali. A mettere in giro queste voci sono alcuni dei suoi stessi commilitoni con cui Mandolini ha avuto dei problemi. Sembra girasse droga tra gli incursori che molti ci invidiano. Marco aveva denunciato uno di questi. Lo stesso che - quando si dice il destino - si trovava, insieme ad altri, a bordo del blindato Lince quando Vincenzo Li Causi viene colpito alla nuca dal colpo sparato da un ribelle somalo mai identificato.

Sin da subito la Folgore - universalmente nota per il grande spirito di corpo che ne anima i componenti, per il senso di fratellanza e di patriottismo - si chiude in un silenzio pesante come quel macigno che ha sfondato il cranio di un commilitone. Un silenzio che dura ancora oggi. E se con grande fatica cominciano a emergere brandelli di verità, mentre un'inchiesta è aperta presso la procura di Livorno, lo si deve soltanto a un avvocato, Dino Latini, e a un criminologo, Federico Carbone.

Quest'ultimo, come consulente della famiglia, ha scoperchiato un vaso di Pandora di cui solo lo strato più esterno è stato esplorato.
Quelli della vicenda Mandolini sono gli anni delle stragi, dei tintinnar di sciabole, degli scandali. E della Falange armata. Sono in molti - magistrati, investigatori, giornalisti - a sostenere che i misteriosi telefonisti che a nome della Falange armata rivendicavano ogni tipo di azione violenta si annidassero nel Sismi, e più precisamente nella VII Divisione, quella cui dipendeva Gladio, quella cui apparteneva Vincenzo Li Causi e anche quell'incursore denunciato da Mandolini per droga.

Qualcuno sospetta che lo stesso Mandolini, pur non facendo parte della VII divisione, potesse essere vicino a quell’ambiente. Quale che sia la verità, Marco Mandolini e Vincenzo Li Causi condividevano molte cose. Forse anche qualche segreto. Forse si erano schierati dalla parte sbagliata. O giusta, dipende dai punti di vista. E non è difficile immaginare che Marco Mandolini volesse denunciare tutto quello che era venuto a sapere su alcuni dei suoi commilitoni. Gli hanno tappato la bocca, ma quel cadavere martoriato urla una verità che Federico Carbone ha intravisto tra le carte (molte recentemente desecretate), tra le testimonianze, tra le reticenze, persino tra i silenzi.

Una verità che ad ogni tassello diventa più inquietante. Come la notizia che gli apparati d'intelligence americani con base in Italia sapevano della morte di un incursore della Folgore 24 ore prima di quella che, ad oggi, viene considerata la data dell'uccisione. Quindi il 12 giugno. E non il 13.

A rivelarlo a Federico Carbone - che ha immediatamente informato la procura di Livorno - una fonte riservata. Un generale dell’esercito americano di stanza a Camp Darby e in attività già nel 1995. Un’ufficile molto vicino alla Cia. Una donna. Ma per quale motivo, a distanza di tanti anni, una donna vicina alla Cia decide di parlare con un consulente della famiglia?

"Una motivazione ideologica legata ai traffici di armi in Somalia - ci spiega Carbone - mi ha raccontato che i suoi due fratelli sono morti all'inizio degli anni novanta in Somalia, durante due operazioni militari. Si è identificata nel fratello di Marco Mandolini, nella sua tenacia nel ricercare un brandello di verità".

Tanto Mandolini quanti Li Causi hanno avuto parecchio a che fare con la Somalia. Uno c'è morto ammazzato. Che una 007 americana abbia deciso di aiutare la famiglia Mandolini, che da anni si batte contro i mulini a vento, è strano, ma - se le ragioni sono davvero queste - comprensibile. La stessa donna avrebbe anche riferito alcuni inquietanti dettagli sulla strage di Capaci, ma questa è un’altra storia.

Certo è che se davvero l’esercito americano e la Cia conoscevano la morte di Mandolini 24 ore prima, sono tante le domande che esigono una risposta. Intanto ne facciamo una noi: siamo sicuri che il delitto sia avvenuto su quella scogliera? L'agguato a Mandolini - un super soldato, addestratore di super soldati - dev'essere stato improvviso, estremamente violento. E dev'essere stato portato a termine da più persone, almeno due, almeno addestrate quanto lui.

Immaginiamo che Marco si sia difeso, che abbia combattuto fino all'ultimo respiro, ma è difficile immaginare che tutto questo sia avvenuto su quella scogliera. È vero, lì ci sono delle tracce di sangue che non appartengono a lui. A sostenerlo è il fratello, Francesco, che tuttavia è certo che Marco non sia stato ucciso lì. E allora dove è stato ucciso? Se le rivelazioni raccolte da Carbone sono vere, in un altro luogo. E la Cia lo è venuto a sapere. Chissà se ha saputo esattamente dove. E da chi. E perché.

Al momento del ritrovamento del cadavere, per esempio, qualcuno ha ispezionato i locali della caserma Vannucci? La stanza in cui dormiva Marco? Qualcuno ha verificato quali militari fossero presenti nella caserma in quel momento? Non vogliamo insinuare dubbi, ne alimentare inutili complottismi, ma in un caso di delitto tanto efferato nulla può essere lasciato al caso.

Il fratello, Francesco, ricorda che attorno al 2008 parlò con il procuratore Antonio Giaconi, oggi deceduto, il quale gli disse che nessuna collaborazione vi fu dall’interno della Vannucci. Quindi no, molte cose che potevano essere fatte, non lo sono state. A questo punto ci si aspetta un nuovo impulso all'inchiesta della procura di Livorno. Lo spunto è più che interessante e, se opportunamente verificato, potrebbe aprire una pista.

Un lavoro congiunto tra le parti interessate al disvelamento della verità e all'ottenimento della giustizia sarebbe in grado, oggi, di fare luce sul caso. Non è troppo tardi, anzi, i tempi non sono mai stati così maturi. E le persone che hanno qualcosa da perdere sono sempre meno.

font: Gianluca Zanella






Sunday, April 18, 2021

Explosion au port de Beyrouth : ce qui pourrait avoir déclenché l'incendie.

 Qu’est-ce qui a fait brûler le hangar numéro 12 et conduit à l’explosion gigantesque du port de Beyrouth ? Bien qu’aucune hypothèse ne soit à écarter, la piste d’un incendie accidentel plutôt qu’une attaque extérieure demeure la plus réaliste selon nos investigations.


Le port de Beyrouth après l'explosion du 4 août 2020. Archives AFP


Huit mois se sont écoulés et les Libanais attendent toujours des réponses sur ce qui a pu conduire à l’une des plus grosses explosions non nucléaires de l’histoire humaine, lorsque des centaines de tonnes de nitrate d’ammonium ont détoné au sein du port de Beyrouth le 4 août dernier, ôtant la vie à plus de 200 personnes et détruisant des quartiers entiers de la capitale.

L’enquête en cours comprend trois volets. Le premier concerne l’historique du Rhosus, le navire qui transportait les 2 750 tonnes de nitrate d’ammonium, un fertilisant agricole qui peut également être transformé en explosif. Il s’agit de savoir pourquoi ce navire poubelle enregistré en Moldavie est arrivé au port de Beyrouth en 2013 et à qui appartient véritablement la marchandise qu’il transportait. Le deuxième volet tente d’établir les responsabilités à différents échelons qui ont conduit à ce que ces matières dangereuses demeurent pendant de si longues années dans l'enceinte du port et notamment dans le hangar n° 12. Le troisième volet vise à savoir ce qui s’est passé le 4 août, pour que le hangar prenne feu et que le nitrate d'ammonium explose.

Selon les sources judiciaires proches du dossier, les deux premiers volets sont ceux qui avancent le plus. En revanche, on ne saurait toujours pas ce qui a mis le feu aux poudres le 4 août. Une expression à prendre au sens littéral, étant donné l’énorme quantité d’explosifs qui étaient stockée aux côtés des sacs de nitrate d’ammonium. La piste d’un incendie accidentel lié à des travaux de réparation ayant lieu le même jour au hangar n°12 a été rapidement privilégiée par les autorités libanaises au moment des faits. Mais pour élucider cette partie de l'enquête, la justice libanaise compterait beaucoup sur le rapport d'experts commissionnés par la France qui ne leur a toujours pas été remis. La France tout comme les États-Unis et la Grande-Bretagne avaient envoyé, après le drame, des experts qui ont travaillé conjointement avec les forces de sécurité intérieure libanaises sur le terrain pour tenter de reconstituer les événements et élucider les causes de l’explosion. Si le FBI a rendu son rapport en octobre, il ne semble pas être parvenu à des réponses concluantes allant au-delà des éléments déjà apportés par les services libanais. « Les Français ont procédé au travail technique et scientifique le plus poussé avec des plongeurs qui ont fait des prélèvements sous-marin. Les deux juges successifs Fadi Sawan et Tarek Bitar (chargé de l’instruction de l'enquête) m’ont tous deux dit qu’ils attendaient impatiemment leurs résultats », indique à L’OLJ la ministre sortante de la Justice Marie-Claude Najm.


La piste d’une attaque extérieure.

Les circonstances entourant l’explosion du port de Beyrouth pourraient alimenter les scénarios les plus paranoïaques tant les coïncidences mises bout à bout semblent invraisemblables. Comment est-il possible que des matières chimiques restées pendant six ans dans un hangar dans des conditions de stockage déplorables finissent par exploser au moment où des travaux de sécurisation étaient enfin lancés ? Comment interpréter le fait que cette catastrophe se produise deux semaines seulement après la remise d’une lettre au président de la République l’informant, pour la première fois, de la présence de cette quantité massive de nitrate d'ammonium ? Comment oublier que quelques heures avant l’explosion, le Premier ministre israélien Benjamin Netanyahu avait menacé de faire payer au Hezbollah le même prix qu'en 2006, après une série de heurts survenus à la frontière israélo-libanaise ? Et enfin comment ne pas se souvenir que le Tribunal spécial pour le Liban devait rendre son verdict sur l’assassinat de Rafic Hariri trois jours après la catastrophe?

Pour mieux démêler le complexe écheveau, il faut revenir sur les instants qui ont précédé l’explosion, ce mardi 4 août 2020. Vers 17h55, les pompiers de la caserne de la Quarantaine sont avertis qu'un incendie s’est déclaré au port de Beyrouth. On ne leur donne toutefois aucune information quant à la présence d’un stock de nitrate d’ammonium sur les lieux. À la même heure, une première vidéo postée sur les réseaux sociaux montre des colonnes de fumée blanche se dégageant du hangar situé juste en face des énormes silos à grains. Lorsque les pompiers arrivent sur place, quelques minutes plus tard, l’incendie a gagné en intensité et la fumée est devenue noire. Ils appellent du renfort et tentent d’ouvrir le hangar. Mais rapidement le feu prend une autre tournure et une série d’explosions se déclenche, accompagnée de grosses étincelles qui suggèrent la présence de feux d’artifice. À 18h08, une énorme boule de feu se forme au milieu du hangar, suivie de la gigantesque détonation équivalente à environ 600 tonnes de TNT qui laissera un cratère de 100 mètres de long et 6 mètres de profondeur. Une déflagration qui fera des dégâts jusqu’à 10 kilomètres de distance.

Quelques heures seulement après le drame, alors que les autorités commencent à évoquer la piste de l’explosion accidentelle d’un stock de nitrate d’ammonium, Donald Trump déclare que « cela ressemble à une terrible attaque » et affirme détenir des informations de généraux américains dont il ne révèle pas l’identité. Les propos du président des États-Unis sont toutefois contredits le même jour par ceux de ses responsables de la défense. Selon eux, s’il y avait eu des indications montrant qu'un acteur régional (sous-entendu Israël) ait pu exécuter une opération de cette ampleur, Washington aurait automatiquement renforcé ses troupes et protégé ses intérêts dans la région par craintes de représailles.

Trois jours après l'explosion, c’est au tour du président libanais d’évoquer la possibilité d’une attaque « au moyen d’un missile ou d’une bombe ». Michel Aoun dit avoir demandé à la France l'accès à des images satellitaires « afin de savoir s'il s'agit d'une agression extérieure ou des conséquences d'une négligence ». Interrogé par L’OLJ pour savoir si le président Aoun maintient ses déclarations aujourd'hui, Salim Jreissati, son conseiller, répond qu’à l'époque et face à l’ampleur du désastre, le président ne pouvait pas écarter l’hypothèse d’un acte de guerre ou d’un sabotage. « Comme beaucoup de Libanais avaient affirmé avoir entendu des avions, le président a demandé des images satellitaires. Mais dès que l’affaire a été déférée devant la Cour de justice, le chef de l’État ne s’est plus jamais exprimé sur l’enquête ni prononcé sur aucune hypothèse », ajoute-t-il. Habitués au viol fréquent de leur espace aérien par les avions israéliens, nombreux sont les Libanais qui disent avoir reconnu le son d’un avion avant la déflagration. Le général à la retraite Khalil Helou en fait partie. « Je suis persuadé que c’est une attaque israélienne que le monde est en train de couvrir. Le fait que les Français ne fournissent pas toutes les images au Liban est en une preuve », déclare l’ancien militaire libanais.

Sur l'accès aux images satellitaires, la France ne semble pas très claire. Y a-t-il eu refus de les fournir ? « Non. Mais les demandes n’avaient pas été envoyées par les voies judiciaires. C’est une question de procédure », déclare une source diplomatique française à L’OLJ. Au sein du gouvernement libanais, on confirme toutefois que la France a promis de fournir ce matériel. Les images seront-elles transmises au juge Bitar en même temps que le rapport d’expertise scientifique tant attendu ? On apprend d’une source officielle libanaise que lorsqu'il était encore aux manettes de l’enquête, le juge Sawan avait fait appel aux Nations unies pour qu’elles demandent aux États membres de livrer ces images au Liban. Une requête non conforme aux prérogatives de l’ONU lui avait répondu son secrétaire général. Les États-Unis auraient, quant à eux, transmis des images très peu significatives de type « google map ». La chance qu’un satellite de renseignements ait pu capter des images au-dessus du port de Beyrouth au moment de l'explosion est toutefois infime, car la plupart opèrent en orbite basse. Ils tournent autour du globe à une vitesse supérieure à la vitesse de rotation de la Terre et ne restent pas au-dessus d’un point donné.

Pour le moment, il n’existe donc aucune preuve pointant vers une attaque aérienne. Dans un document datant du 7 août et accompagné d'images que L’OLJ a pu consulter, la Direction générale de l’Aviation civile libanaise écrit que les systèmes de radars locaux n’ont repéré aucun appareil militaire ennemi ou ami dans le ciel libanais et alentour entre 17h et 18h10. En outre, l’analyse des photos et vidéos prises au moment de l’incendie et de l’explosion n’a montré aucun indice appuyant l'hypothèse de la présence d'un avion ou d'un missile, ce dernier étant généralement détectable à l'œil nu, s’il est gros, mais aussi par les radars. « L'explosion ne peut pas être le résultat d'une opération d'un avion ou d’un drone militaire, car cela aurait été aussi repéré par tous les radars des pays voisins », affirme pour sa part Joseph Henrotin, rédacteur en chef du magazine Défense et Sécurité internationale. « Il est trop tiré par les cheveux d’imaginer que tout le monde voudrait cacher l’information », ajoute-t-il. « Et puis frapper comme ça en pleine ville, à côté des silos à grains c’est trop gros ! Je ne connais aucun officier de force aérienne qui recommanderait une option pareille. C’est créer des dommages collatéraux absolument incontrôlables, d’une part, et de l’autre, c’est ridicule du point de vue de la discrétion », poursuit-il. Selon le politologue spécialiste de la défense, si Israël avait voulu neutraliser une cible située en pleine ville, il aurait fait intervenir des forces spéciales.


L’hypothèse d’une cache d’armes du Hezbollah.

Les Israéliens ont nié toute implication dans les événements du 4 août. « L’État Hébreu ne s'attendait pas à créer des dégâts d'une telle ampleur car son objectif n’était pas de viser le nitrate d’ammonium mais un dépôt d’armes ou des intérêts du Hezbollah au port de Beyrouth », martèle quant à lui l’ancien général libanais Khalil Helou, pas convaincu par les dénégations israéliennes.

Ces allégations partagées par une partie de l'opinion publique et relayées dans certains articles ont été fermement démenties par Hassan Nasrallah. « Il n’y a rien nous appartenant au port, pas de stock d’armes, pas de roquettes, pas de pistolets, pas de bombes, pas de balles, pas de nitrate. Il n’y en a pas, il n’y en a pas eu et il n’y en aura pas », avait martelé, lors d'un discours le 7 août, le leader du parti de Dieu en affirmant que l'investigation lui donnerait raison.

Ces dernières années, Israël a eu pour habitude d’effectuer des frappes aériennes contre des positions du Hezbollah sur le sol syrien dans le but affiché d'empêcher le ravitaillement en armes du mouvement chiite par Téhéran. Toutefois, en 2019, les Israéliens ont réalisé une attaque inédite au sein de la capitale libanaise. Des petits drones, dont l’un transportait une charge explosive de 5 kilos, se sont écrasés dans la banlieue sud de Beyrouth. L’UAV armé a explosé contre un centre appartenant au Hezbollah, faisant trois blessés et des dégâts matériels. C'était la première fois que l’on voyait des drones chargés d'explosifs survoler l'aéroport, mettre en danger l’aviation civile et commerciale et s’écraser dans les rues du Liban.

Si de tels petits engins étaient à l'origine des explosions du 4 août, il faudrait néanmoins qu’ils aient pénétré avec une impressionnante précision et sans être vus dans le hangar à travers une ouverture pour pouvoir causer les dégâts escomptés. Plusieurs des fenêtres du hangar n° 12 étaient ouvertes au moment de l'incendie, mais elles étaient aussi couvertes d’un grillage d’après les informations d’une des personnes placées en détention.

Par ailleurs, il faudrait encore prouver qu'il y avait bel et bien une réserve d’armes au sein de ce bâtiment. « Pourquoi le Hezbollah utiliserait-il le port de Beyrouth, où opèrent de nombreux services de sécurité, comme entrepôts d’armes ? Ça n'a pas de sens », estime Mohanad Hage Ali, chercheur au Carnegie Middle East Center selon lequel rien n’a jamais accrédité cette thèse par le passé. « Le port est une institution libanaise où toutes les parties sont représentées et y opèrent. C’est un lieu trop exposé pour que le Hezbollah puisse y fabriquer librement des munitions. » Selon le rapport d’enquête de la police judiciaire libanaise consulté par l'OLJ, aucune trace de munitions ne semble avoir été retrouvée. Ce document produit un inventaire des matières collectées sur les lieux de la déflagration par les experts libanais. Les morceaux métalliques que certaines personnes ont trouvés ça et là dans les rues de Beyrouth et dont certains ont estimé qu'il s'agissait de débris de roquettes et de munitions, ont été identifiés comme des morceaux de la structure du hangar 12 qui a été pulvérisé. Il est écrit, dans ce rapport daté du 24 août, que les prélèvements analysés n’ont révélé aucune trace d’explosifs militaires ou d’obus. Des entretiens entre le FBI et les enquêteurs libanais en date du 21 août, dont les procès verbaux ont fuité dans le quotidien al-Akhbar, proche du Hezbollah, vont dans le même sens. Il faudra encore attendre les conclusions des Français.

Une partie de l’opinion publique libanaise soupçonne d’autre part le Hezbollah d’avoir voulu mettre le feu au stock de nitrate d’ammonium pour effacer les preuves de son utilisation. Selon cette théorie, le mouvement chiite aurait servi de mule au régime syrien en acheminant ces matières, qui peuvent être détournées pour fabriquer des explosifs, vers Damas. L’arrivée de cette marchandise au Liban coïnciderait au moment où le régime de Bachar el-Assad était accusé de larguer des barils d'explosifs (des barils chargés de morceaux de ferraille et de TNT) sur sa population et Damas aurait eu tout intérêt à garder le nitrate d’ammonium au port de Beyrouth au risque d'interpeller la communauté internationale. Une enquête du journaliste Firas Hatoum diffusée fin janvier sur la chaîne télévisée al-Jadeed avait pour sa part fait état de l’implication présumée de trois hommes d’affaires syro-russes proches du régime de Assad dans l’acheminement du nitrate d'ammonium vers le port de la capitale libanaise.

Pour pouvoir vérifier une telle hypothèse, il faudrait entre autres pouvoir prouver que le stock de nitrate d’ammonium avait été entamé. D’après une source judiciaire, les expertises libanaise et française estiment que 20 à 25 % de la totalité du stock ont explosé, soit 550 à 700 tonnes sur les 2 750. Mais cela signifie-t-il pour autant que le reste du stock n’était plus dans le hangar avant l’explosion ? Pas nécessairement. Dans le rapport de la police judiciaire libanaise, il est indiqué qu’en raison de leur mauvais entreposage, les sacs de nitrate n’ont pas entièrement détoné ce qui aurait fortement réduit la force de la déflagration. De plus, la quantité qui n’a pas explosé pourrait avoir brûlé, ou s’être dispersée. Selon Gareth Collett, expert onusien en explosifs, il est quasi impossible de déterminer la quantité exacte présente dans le hangar avant la déflagration.


Le hangar n° 12 : une bombe à retardement.

Ingénieur britannique, Gareth Collett est celui qui a travaillé avec le centre de recherche Forensic Architecture (FA) sur la fameuse reconstitution 3D du hangar n° 12 avant son explosion. Son expertise a permis à FA de définir comment étaient entreposées les différentes matières au sein du bâtiment et la manière dont le feu s’y est propagé grâce à l’étude des différentes fumées se dégageant du hangar au moment de l’incendie que l’on a pu observer via les nombreuses vidéos ayant circulé. Le hangar n° 12 contenait une quantité de matériaux inflammables et hautement incompatibles en ce qui concerne leur stockage : 23 tonnes de feux d’artifice, des pneus, du méthanol, des mèches d’allumage, des huiles, des meubles, du bois, de la nourriture et, évidemment, 2 750 tonnes de nitrate d’ammonium. En mettant de côté l’hypothèse d’une attaque, toutes les conditions étaient déjà réunies pour que ce cocktail redoutable explose au moindre incident.

Interrogé par L’OLJ pour savoir ce qui a pu brûler en premier au sein du hangar, Gareth Collett affirme que les fumées blanches visibles au début sont typiques de matières rapidement inflammables, comme le carton et le bois, dont la combustion peut être provoquée par une simple cigarette ou allumette, ou n’importe quelle étincelle émise dans le cadre d’une soudure ou d’un problème électrique. Le feu s’est par la suite développé et propagé à d'autres matières combustibles, comme les pneus, les liquides inflammables et les feux d'artifice. L’intensité avec laquelle ces derniers se sont mis à brûler a propagé des sources d'inflammation dans d'autres zones de l'entrepôt. D’après l’expert britannique, le nitrate d’ammonium contaminé par des années de stockage défaillant ne pouvait pas résister à une chaleur aussi intense. Sa détonation, dans ces conditions, était alors inéluctable.





Les enquêteurs libanais étaient-ils conscients qu’ils avaient affaire à une véritable bombe à retardement pour s'être orientés si rapidement vers la piste d’un accident lié à des travaux de soudure ? Le hangar n° 12 subissait en effet des réparations depuis le 29 juillet 2020. Un rapport de la sûreté de l’État établi deux mois plus tôt par le capitaine Joseph Naddaf avait mis en lumière les conditions déplorables de cet entrepôt. Le procureur de la République Ghassan Oueidate avait, par conséquent, ordonné des travaux de sécurisation du hangar n° 12 pour empêcher toute intrusion et le vol de ces matières à des fins terroristes.

La compagnie de l'entrepreneur Salim Chebli, qui intervient au port depuis 1994, a remporté l'appel d'offre pour exécuter les travaux chiffrés à 6 millions de livres libanaises qui consistaient à réparer quelques portes et à reboucher des trous, dont un de 40 cm de diamètre, au niveau des murs du hangar. Au quatrième et dernier jour de leur intervention, soit le jour de l'explosion, les trois ouvriers de la compagnie Chebli ont effectué des travaux de maintenance et de soudure sur deux portes du hangar n° 12.

Placés en détention avec leur patron Salim Chebli depuis le mois d’août, les ouvriers ont assuré, selon les informations obtenues par L'Orient-Le Jour, avoir effectué leurs dernières soudures sur les portes 3 et 11 (voir schéma) aux alentours de 16h. Ils se sont ensuite rendus sur un autre site pour y effectuer des réparations avant de quitter le port vers 17h, ce qui a pu être confirmé par les caméras de surveillance.

Les réparations effectuées ce jour-là auraient-elles pu déclencher le feu constaté un peu moins de deux heures plus tard dans le hangar ? La probabilité qu’une étincelle liée à la soudure ait pu mettre le feu aux poudres est mince. D’abord parce que la maintenance sur les portes a été effectuée à partir de l'extérieur du bâtiment, et ensuite parce que l’incendie s’est déclenché à près de 50 mètres de la zone d’intervention des ouvriers. Rien ne peut toutefois garantir qu’aucun incident, comme le jet d’une cigarette allumée ou n'importe quelle autre erreur ou négligence, voire même qu'un acte malveillant, n’ait pu se produire pendant les travaux tant les dispositifs de sécurité au sein du port se révèlent pitoyables.

D’après les informations obtenues par L'OLJ, les ouvriers ont certes aperçu de gros sacs éventrés entreposés n'importe comment dans le bâtiment. Mais ils ne savaient pas qu'ils contenaient du nitrate d'ammonium et n'avaient aucune idée de la nature explosive de ces matières. À aucun moment, lors de leurs travaux, ils n'ont, en outre, été alertés quant à un possible danger. Un des hommes rapporte même qu’un responsable au port lui a demandé d’entrer dans le hangar pour ouvrir une des portes (qui ne s’ouvre que de l’intérieur ) et qu’il a dû marcher sur les sacs qui s'étalaient sur toute la surface du sol pour pouvoir y accéder.

Aucune disposition adéquate n'avait donc été prise pour intervenir sur un site abritant des substances dangereuses, ni par les personnes en charge du hangar ni par les ouvriers et leur superviseur. Une photo d’eux travaillant devant le hangar a longtemps circulé sur le web et on y voit clairement les conditions rudimentaires de l'opération de maintenance : les ouvriers travaillent en simple pantalon et basket, et ne portent aucune tenue, outil ou protection adaptés.

À cela s’ajoute la surveillance bancale des travaux. Toute la journée du 3 août, les ouvriers ont travaillé seuls, alors qu’un employé de la direction du port était désigné pour les accompagner pendant toutes les étapes de l'opération de maintenance. La porte sur laquelle ils travaillaient la veille avait été tirée sans être verrouillée, afin qu'ils puissent poursuivre les travaux le lendemain. Cela signifie que les travailleurs ont eu librement accès au hangar, en dehors de toute surveillance. Enfin, détail qui a son importance : alors que la direction du port avait donné aux ouvriers l'ordre de quitter le hangar à 14h30, ces derniers sont restés au-delà de cette heure limite afin de boucler les travaux. Personne n'était donc présent avec eux pendant les dernières heures de maintenance qui ont précédé l'incendie.

D’autre part, comment un tel chantier a-t-il pu démarrer sans qu’aucun inventaire précis de ce que contient le hangar n’ait été établi au préalable et transmis aux prestataires ? Les informations obtenues par L'OLJ semblent indiquer que cet inventaire n’a jamais été fait alors que les 23 tonnes de feux d’artifice avaient été placées dans l’entrepôt plusieurs années avant le nitrate d'ammonium. Cette information à elle seule aurait dû suffire pour mettre en pause les travaux et faire évacuer les produits pyrotechniques qui doivent être strictement isolés au sein d’un bâtiment selon la réglementation. En somme, les prestataires du port de Beyrouth ont effectué des réparations près d’une véritable bombe que la moindre étincelle pouvait activer, tandis que les responsables successifs du hangar et leur hiérarchie semblent n’avoir jamais envisagé que leur négligence puisse atteindre un degré extrême de criminalité. « En fin de compte, la cause de l’explosion paraît secondaire par rapport au fait que nos responsables ont trimballé cette bombe pendant six ans sans savoir quoi en faire. C’est cela le plus choquant, et cela en dit long sur nos institutions », estime le chercheur Mohanad Hage Ali en référence à toutes les preuves qui ont révélé que des responsables à tous les niveaux étaient au courant du danger que représentaient ces matières stockées au cœur de Beyrouth, sans avoir jamais donné l’ordre de les évacuer loin des zones d’habitations.

Font: OLJ / Par Marie-Jo SADER, le 17 avril 2021 à 00h01